7 luglio 2020
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Angelo Ferracuti, co-fondatore insieme a Giovanni Marrozzini della Scuola Jack London, spiega a L’Ottavo la differenza tra lo storytelling ed il racconto onesto
Sgombriamo subito il campo da equivoci. La vostra non è una scuola di scrittura ma, come dite, una scuola di letteratura e fotografia. Un progetto ambizioso. Da cosa nasce l’esigenza di creare un laboratorio per insegnare “il mestiere di raccontare”?
La nostra è una scuola che non a caso è intitolata a Jack London - lo scrittore più vitalistico della letteratura di tutti i tempi - e nasce dall’attività mia e del fotografo Giovanni Marrozzini, dalla nostra passione e curiosità non solo per le questioni estetiche, ma anche proprio per l’elemento vitalistico che sta dentro il reportage, che secondo me è decisivo, ed è proprio “l’alternativa nomade” di cui parlava Chatwin, alternativa a quella stanziale, borghese, dello scrittore seduto alla scrivania, o del fotografo lezioso, estetizzante. Raccontare può diventare il mestiere più bello del mondo, è una apprensione della realtà molto forte, perché come dice giustamente Kapuscinsky “solo quando è in viaggio un reporter si sente a casa e se stesso”, è proprio così. In viaggio il tempo diventa un tempo diverso, si vive dentro la dimensione dell’avventura, della scoperta, ma anche dello spaesamento. Quindi chi vuole raccontare, con le immagini e con le parole, deve preparare il suo lavoro con molto anticipo e nei minimi dettagli, e non basta saper scrivere o fotografare, bisogna avere cognizioni anche di altro genere, geografiche, culturali, conoscere la storia profonda dei popoli, quindi antropologiche, saper rappresentare lo spazio. Abbiamo pensato una scuola così, complessa. Quando sono andato a Varsavia nei luoghi del grande Kapuscinsky, nel momento in cui sua figlia mi ha accompagnato nella biblioteca, è stato per me molto emozionante. C’erano le cartine da lui segnate, i molti taccuini, ma soprattutto ho scoperto che la metà dei libri dell’uomo che ha raccontato 27 guerre, erano libri di poesia. È una cosa che ho sempre pensato, e lì ne ho avuto la conferma, cioè che per fare buoni reportage non basta fare una scuola di giornalismo o di scrittura creativa, ma bisogna proprio allargare gli orizzonti della ricerca, confrontarsi anche con argomenti a volte ritenuti lontani, come per esempio la filosofia, che nella nostra scuola sarà insegnata da Marco Filoni, conoscere la storia dell’arte, che abbiamo affidato a Christian Caliandro, avere a che fare con editor di letteratura come Rollo o di fotografia come Renata Ferri, editor del gruppo RCS Corriere della Sera, o il reporter della France Press Longari, tutti professionisti serissimi.
Il tuo rapporto con la fotografia è lungo e profondo. Parole immagini non sono affatto diverse tra loro. Del resto, se la fotografia è la scrittura della luce, possiamo dire che, per entrambe, si tratta di prospettiva, di angolazione?
Mi sono sempre sentito dentro una tradizione, di appartenere a una storia che è iniziata prima di me e che istintivamente all’inizio ho cercato di proseguire, alla quale, successivamente, ho dato una impronta mia personale. Ho conosciuto da giovanissimo Luigi Crocenzi, il fotografo del Politecnico, l’illustratore di “Conversazioni in Sicilia”, un prototipo del rapporto tra fotografia e letteratura. E’ lui che ha dato vita a Fermo, nella mia città, dove avrà sede la scuola, al Centro studi per la fotografia, poi è arrivato Dondero, che considero il mio maestro. Quindi ho lavorato molto con i fotografi, perché a volte, come diceva Benjamin “una foto vale più di mille parole”, scopre porzioni di senso inavvicinabii con il narrare, qualcosa di molto più vicino alla poesia, all’epifania, al lampo improvviso di luce. Invece credo siano linguaggi narrativi molto diversi che nei casi migliori, e penso alla coppia Capa-Steinbeck o Zavattini-Strand, danno vita a un ibrido nuovo, a un fototesto, mettono insieme due sguardi e li intrecciano, perché anche le foto hanno un montaggio organizzato, pensato, “riverberano” una nell’altra come diceva Crocenzi, inventore del racconto fotografico neorealista, che nasceva dall’idea del cinema, delle immagini in movimento.
Quando si scrive e quando si fotografa quanto è importante l’idea iniziale del progetto e quanto il lasciarsi distrarre, come diceva Dondero?
Ho lavorato molto con Mario e lui non si distraeva affatto, posso assicuratelo. Anzi, stava sempre sul pezzo, anche in maniera ossessiva, lavorava sempre, fino alla fine, fino a notte tarda. Lavorava dentro le trame della vita portandoci la sua forma di racconto, è questo che vorremmo insegnare ai ragazzi che verranno alla Scuola Jack London. Certo la bellezza del racconto vivente è proprio l’imprevedibilità, all’improvviso vedi una cosa e capisci che tutto quello che avevi pensato prima è da buttare via. Bisogna essere preparati all’imprevedibilità, e per questo bisogna allenarsi, allenare lo sguardo ma soprattutto il ragionamento. Più che insegnare a scrivere bisogna insegnare a pensare la scrittura, la costruzione di un racconto, la sua organizzazione, il suo potenziamento, la rete complessa di elementi che costituiscono la sua natura profonda e definitiva.
Raccontare è qualcosa di nobile, così diverso dal tanto decantato e aziendale storytelling. Quali le differenze, secondo te, sostanziali, tra le due cose?
Lo storytelling è orientato, è una menzogna organizzata, efficace, quella del marketing, mentre il racconto onesto che voglio fare io, cerca di avvicinarsi il più possibile alla verità, è la stessa differenza che c’è tra la finzione e il falso. Comunque i ragazzi della scuola avranno borse lavoro offerte anche da aziende, ma per fare un lavoro del tuttto etico sulla povertà in Italia, per esempio, o su alcune filiere agro-alimentari di assoluto pregio, di altissima qualità. Li manderemo sul campo a raccontare, una opportunità incredibile.
Lo sguardo non è mai solo estetico ma anche etico. Si sceglie cosa fotografare così come si sceglie cosa raccontare. In un reportage il “punto di vista” indirizza anche la prospettiva stessa del racconto. In fondo è un atto politico. Sei d’accordo?
È verissimo, il reportage è soprattutto una forma di cittadinanza attiva. C’è uno scritto di Robert Walser che parla del naso dello scrittore, cioè di uno che mette il naso dove le cose non sono chiare, per andare a scovarle, a rivelarle. La scelta è già un atto politico molto forte. La mia storia da questo punto di vista è assolutamente molto coerente, voglio pensare, mi sono occupato molto di lavoro, ho ricostruito storie sepolte del passato di cui nessuno aveva più interesse, come quella della Mecnavi di Ravenna, dove morirono 13 picchettini nelle stive di una nave gasiera, o quella dei minatori e degli operai del Sulcis, in Sardegna. E da cinque anni, insieme a Giovanni Marrozzini, vado in Amazzonia per fare un grande reportage sullo stato della foresta e la condizione minacciata dei popoli indigeni.
Letteratura, fotografia, poesia, storia dell’arte, editoria. Un approccio sistemico, se mi consenti di usare questa parola. Perché narrare è davvero un mestiere che si compone di molte competenze e curiosità. Credi che un buon reportage abbia bisogno, prima di tutto, di partire dalla complessità della realtà? Per poter davvero, alla fine, approdare al cuore di ciò che si vuole raccontare?
Nel mondo globalizzato tutto è fittamente legato e intrecciato, così anche il racconto deve tenere in piedi molte cose, molte di più di una volta quando ogni mondo era chiuso dentro la sua autoreferenzialità. Il principio fondante della scuola, ma anche quello che ho sempre legato al mio lavoro, è proprio quello che tu dici, cioè un insieme di conoscenze che convergono, che s’intramano, più elementi di senso che concorrono a creare un disegno. Bisogna potenziare la visione, il ragionamento, ma anche il linguaggio. Più lo statuto espressivo è alto, sofisticato, in senso anche estetico, più i messaggi che stanno dentro la narrazione arrivano forti.
Raccontare e fotografare sono inestricabilmente legati al concetto di testimonianza. Tesimonianza di chi scrive ma anche delle persone che vengono ascoltate durante la realizzazione di un reportage. E qui entra in campo qualcosa di troppo spesso dimenticato: la responsabilità. È, secondo te, qualcosa che si sta un po’ perdendo?
È qualcosa che la scuola Jack London vuole perseguire con più forza, la responsabilità di fare un racconto onesto, senza tradire appunto le persone disposte a donarci la propria testimonianza, il proprio dramma, l’epica di una vita, ma anche la bellezza, l’incanto di un luogo particolare, una esperienza di vita irripetibile. Quello che sempre più spesso la cattiva televisone tradisce, ma anche il cattivo giornalismo, e la letteratura di consumo. Ma ci sono ancora tanti giovani apprendisti fotografi, giornalisti, scrittori, che ogni giorno, con coraggio e umiltà vorrebbero con responsabilità raccontare il mondo. Sono i giovani che cerchiamo, ai quali vogliamo offrire una casa dove apprendere e nutrire una passione che insieme estetica e civile.
Intervista di Geraldine Meyer apparsa su www.lottavo.it
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